Diciassette cose da non perdere, la guida alla Milano Design Week 2022 - CTD

2022-06-04 01:41:46 By : Ms. Cindy Wang

Diciassette. Sono le mostre, le installazioni e gli eventi che abbiamo selezionato tra le centinaia della Milano Design Week al via il 7 giugno. Diciassette, e non dieci o venti. Niente cifra tonda vuol dire nessun riempitivo, nessuna approssimazione per eccesso o per difetto. Per questa guida, ci siamo lasciati ispirare semplicemente dal nostro intuito. Abbiamo ragionato come se le gambe con cui andrete e il sudore che verserete fossero i nostri. Abbiamo letto centinaia di comunicati stampa, guardato migliaia di foto: è il nostro lavoro. Esattamente come lo è incrociare i press kit con il nostro patrimonio di conoscenze e l’amore che nutriamo per il design, per la bellezza, per l’innovazione. La guida segue un filo che vuole essere il più oggettivo possibile, pur sapendo che l’oggettività, in questo mondo, è un miraggio. Dichiararlo ci rende, quantomeno, onesti.

Mentre il design inizia a scoprire il metaverso, l’uomo che tra i primi ha portato la creatività nel mondo degli Nft compie il suo viaggio di ritorno e atterra a Milano per confermare al pubblico il valore e l’hype generato da Hortensia Armchair. Nel frattempo, la “poltrona impossibile” fatta di trentamila petali di tessuto che in realtà era un rendering 3D nato per Instagram (e venduto all’asta per 450 mila dollari), è stata messa in produzione da Moooi nel 2021, dopo un processo sofisticatissimo di ingegnerizzazione che ha coinvolto, oltre a Reisinger, la designer catalana Julia Esqué. Nell’allestimento A Life Extraordinary del marchio olandese fondato da Marcel Wanders, in via San Gregorio 29 da Lg Oled, Hortensia Armchair sarà presentata in tre nuovi colori. Reisinger sarà anche da Nilufar Depot con l’installazione Too Much Too Soon, per interpretare nientemeno che l’ufficio della fondatrice Nina Yasher. 

Perché è come sottoporre un ambasciatore dell’innovazione a un test: l’artista del metaverso si gioca la sua fama nel mondo reale. 

Tre anni fa uscivano con una laurea da Ied Milano. Adesso, dopo un brillante debutto a Edit Napoli nel 2020 seguito da una replica non meno interessante l’anno dopo, scoprono la curatela con un progetto che si preannuncia maturo e impegnativo: portare la cultura slow nella frenesia del Fuorisalone, e farlo senza ammiccamenti facili. Finemateria, al secolo Stefano Bassan e Gianluca Sigismondi, mezzo secolo in due, guidano una selezione di sedici designer internazionali negli spazi di Isola Design District, in piazza Città di Lombardia. L’allestimento vuole cambiare in meglio l’approccio del pubblico ai percorsi espositivi legati al design editoriale e di ricerca (quello dei sedici studi protagonisti, appunto): “Spesso la visita risulta statica e inespressiva, senza andare oltre una percezione visiva superficiale” spiegano i curatori. “Vita Lenta è invece un invito a perdere la cognizione del tempo”. 

Perché Finemateria è uno studio giovane che ha dato ampie prove di maturità nei suoi progetti verticali basati sull’uso del poliuretano espanso, interpretato in maniera colta e contemporanea con evidenti citazioni radical. La curatela è un’ulteriore scommessa che mette insieme prodotto, cultura del design e comunicazione. 

Finemateria, Gianluca Sigismondi e Stefano Bassan

Ci sono tantissime ragioni per festeggiare i sessant’anni di un’azienda che è ambasciatrice nel mondo del miglior made in Italy, e una di queste è proprio ripercorrerne la storia: in maniera dinamica e non autoreferenziale. See The Stars Again è moltissime cose insieme: sotto l’insegna del verso dantesco che fa da titolo, Flos chiama a raccolta il pubblico a Fabbrica Orobia 15, un ex spazio industriale di seimila metri quadrati non distante dalla Fondazione Prada – e dunque in una delle nuove aree culturalmente più vivaci di Milano – per raccontare che cosa succede nel mondo della luce, come è cambiata la progettazione della casa e degli spazi contract grazie alla domotica, ma anche la fine delle classiche categorie merceologiche, visto che in questo allestimento – firmato dai design curator Calvi Brambilla – i prodotti non sono ripartiti per destinazione (casa, hotellerie, ristorazione…), ma per ispirazione progettuale. L’evento sarà una vera rassegna con un palinsesto di talk, workshop, attività per bambini, musica e la cucina di We Are Ona, la piattaforma nata per valorizzare l’offerta dei giovani chef, che qualcuno avrà avuto modo di apprezzare all’ultima Biennale di Venezia. Non meno importanti le novità in catalogo: dalla nuova Arco in edizione limitata che celebra i sessant’anni del capolavoro di Achille e Pier Giacomo Castiglioni al debutto con il marchio del giovane e già maturo Guglielmo Poletti. 

Perché è bello quando un marchio storico si apre al pubblico per generare un allestimento che va oltre il prodotto e usa il catalogo per raccontare il proprio tempo. O anticiparlo.

Ci sono incontri che sembrano scritti nel destino. Quello tra Antonio Aricò e Orografie, per esempio. Il più poetico dei designer italiani del nostro tempo incontra l’azienda siciliana dalla storia recente ma già densa per dare vita a qualcosa che è insieme salto nel passato e proiezione verso un futuro ipersimbolico. Agata è la poltrona artigianale nata per rileggere la Proust di Alessandro Mendini e arricchire il catalogo del marchio catanese dei “nuovi riti da abitare”. Su invito dell’art director Vincenzo Castellana, Aricò ha riservato all’icona lo stesso trattamento pop che il maestro milanese aveva riservato alla seduta Lulù. Il risultato è un mix di sacro e profano, un viaggio che parte dalle reliquie della santa celebrata nella terza festa popolare più grande al mondo e finisce con le bombolette spray, quelle con cui Aricò colorerà la poltrona in una performance live.   

Per imparare che il design è (anche) ironia e irriverenza. Specialmente quando si è chiamati a rileggere l’opera dei maestri.

Agata, dettaglio. Foto Irene Tranchina

Agata, Antonio Aricò per Orografie

Qui siamo nel mondo della ricerca dedicata ai nuovi materiali, pieno di soluzioni a cui manca spesso qualcosa: certe volte un’estetica convincente, altre la qualità tecnologica, altre ancora la fattibilità economica. Common Sands Forite è, nello specifico, una collezione di piastrelle in vetro riciclato realizzate con i componenti recuperati da forni e forni a microonde dismessi. Un progetto prototipo per affrontare sia la scarsità di silicato che i crescenti volumi di rifiuti elettronici e che nasce dalla collaborazione lunga tre anni tra Studio Plastique, Snøhetta e Fornace Brioni. Tre anni fa, la prima versione del neomateriale aveva lasciato a desiderare a livello estetico, adesso il lavoro di gruppo che ha avuto come protagonisti anche uno dei maggiori studi mondiali di architettura e una realtà che incarna la migliore manifattura italiana apre al progetto nuove porte per il mercato.

Perché la battaglia per un design sostenibile passa attraverso l’estetica dei nuovi materiali e dei nuovi prodotti. L’evoluzione di Common Sands è un buon esempio degli sforzi che la cultura del progetto compie ogni giorno per migliorare il mercato alzando i propri standard, estetici e non soltanto. 

Common Sands Forite, la piastrella ricavata dal vetro di forni e forni a microonde

La moda, il design e un creativo pressoché totale alle prese con un concept originale: una mostra di cose di un solo colore, l’arancione. Alla casa museo Poldi Pezzoli, Luca Nichetto e La Manufacture portano 871 days, 50 products, 17 designers and 1 single color. La Manufacture è il marchio del fashion fondato due anni fa dal libanese Robert Arcuri, che è anche a capo dell’azienda di mobili Ciderde. Gli oggetti in mostra sono tutti arancione, il colore delle pettorine nei cantieri. E questo perché la mostra è pensata come un luogo dinamico e in divenire. Nichetto ha debuttato per La Manufacture come art director prima e come fashion designer poi. Un incontro che ha molto da rivelare. Questa mostra è l’occasione ideale per provare a cogliere il senso di una storia di crossover appena iniziata.

Perché pochi argomenti sono gettonati nel mondo del design come quello del rapporto tra fashion e arredo. Vedere un designer di prodotto come Nichetto alle prese con un marchio di moda vuol dire aggiungere un capitolo a questa storia.  

È una bella storia, quella di Very Simple Kitchen. Il marchio di cucine modulari e componibili, pret a porter, ispirato alle strutture dei banchi da lavoro industriale, vagamente rétro senza indulgere negli ammiccamenti nostalgici, debutta nell’outdoor e lo fa con la maturità di un’azienda navigata, mantenendo la freschezza della start up nata a Bologna soltanto quattro anni fa. La passione sfrenata per la lamiera del team guidato da Riccardo Randi ha portato lontano il marchio, che si presenta in un luogo distante dai cliché della Design Week come il circolo Arci Bellezza, trasformato per l’occasione da Davide Fabio Colaci in un giardino giocoso e scanzonato. 

Perché Very Simple Kitchen dimostra che il made in Italy non è soltanto una storia di grandi marchi o di sofisticate manifatture artigianali, ma può diventare conquista anche di una piccola start up dall’approccio industriale al fattobene.

Lo scorso settembre, grazie a una delle mostre allestite in questa ex tipografia che è ormai una realtà consolidata nell’offerta culturale milanese, scoprimmo quel fenomeno speciale e poetico che sono i Talea Party, le feste in cui appassionati di giardinaggio si scambiamo, appunto, talee di piante come alternativa sostenibile al mercato dei semi. Anche quest’anno, la dimensione corale è la cifra distintiva di almeno uno dei tre progetti a cura di Federica Sala ad Assab One. Parliamo di Wandering Fields, l’installazione di Studio Ossidiana che mette in relazione la Pianura padana, dove Alessandra Comini e Giovanni Bellotti sono nati, con le Low Lands olandesi, in cui i due designer vivono da anni. Il pubblico potrà prendersi cura del terreno con zappa e rastrello. Al termine della mostra, questo speciale tappeto sarà convertito in un cumulo fertile e trasportato nel parco Trotter per essere donato ai cittadini come opera di design pubblico. Firmano gli altri due allestimenti Zilla Leutenegger e Cino e Chiara Zucchi. Il migliore invito a visitare la mostra sono le parole stesse di Federica Sala: “Gli ultimi anni hanno fortemente irrigidito la nostra organizzazione temporale obbligandoci a pianificare tutto nel minimo dettaglio: prendiamo i biglietti per le mostre e per i cinema con largo anticipo, non andiamo più al ristorante senza aver prenotato, viviamo giornate con agende bloccate in una sequenza di appuntamenti fisici o virtuali. Persino le telefonate sono organizzate. Ecco: la mostra vuole invece riportare al centro delle nostre vite quella spontaneità e quella casualità che crediamo essere un valore importante della nostra capacità di sorprenderci, di essere curiosi, di deviare dal percorso prestabilito e di farlo con leggerezza ed allegria”.

Per la coralità del progetto, che coinvolge attivamente il pubblico. E perché la mostra consolida la matrice culturale di uno spazio che vive felicemente la sua seconda vita grazie, appunto, alla cultura, al design e all’arte.

Chi segue Cieloterradesign conosce la nostra passione per Fbs Profilati e la direzione artistica di Gio Tirotto, che sta traghettando questo marchio dalla storia gregaria accanto ai grandi nomi del design italiano verso un’esperienza sempre più autonoma e matura. Dopo l’installazione che lo scorso settembre ha raccontato l’anima digitale delle cose, Tirotto e l’azienda di Settimo Milanese scelgono Alcova per presentare Way, il nuovo sistema decorativo per finestre e vetrate che trasforma uno strumento essenzialmente umile e di servizio come i profilati in un elemento di design per liberare la creatività degli architetti. Con Way, i profilati diventano come rami di alberi per alimentare nuove configurazioni, mai scontate.

Per scoprire come una art direction può imprimere una svolta alla storia di un marchio. 

È stata la sorpresa dell’anno scorso: uno spazio enorme, quasi venti ettari indoor e outdoor dal fascino fané dove radunare un pubblico di sessantamila persone tra il verde spontaneo e edifici abbandonati pieni di immaginifiche scrostature. Alcova torna nel parco urbano del Centro Ospedaliero Militare per bissare il successo del settembre 2021. Lo fa ampliando le location all’interno del parco e introducendo una nuova sezione, Curated by Alcova, per “la valorizzazione e la promozione dei più interessanti talenti internazionali”. La piattaforma creata da Joseph Grima e Valentina Ciuffi si conferma una tappa obbligata, non soltanto per gli addetti ai lavori, ma anche e soprattutto per chi vuole godere del design in una dimensione da gita fuori porta, tra file ai chioschetti di street food e angoli di città inattesi da riscoprire. Lo stesso movente potrebbe spingere il pubblico fino a Baranzate, nell’ex fabbrica Necchi, dove il designer, artista e architetto d’interni belga Lionel Jadot ha voluto ricreare Zaventem Ateliers, l’ex area industriale alle porte di Bruxelles dove ha riunito tre anni fa una comunità eclettica di creator emergenti e affermati: designer, artisti e scenografi, uniti dalla passione per la produzione e la trasformazione dei materiali, concentrati su oggetti di alta qualità e ben disegnati che riflettono le ultime innovazioni e si sforzano di produrre pezzi unici o edizioni limitate. 

Per scoprire come il design può diventare il driver nella riscoperta di luoghi e destinazioni poco o affatto conosciuti. E perché un Fuorisalone dalle coordinate geografiche sempre uguali sarebbe impensabile.

Alcova, nel Centro Ospedaliero Militare di Milano

Poche cose affascinano nel design come la verticalità della ricerca tipica di certo artigianato. Quest’anno gli appuntamenti imperdibili per chi ama i progetti che originano da tradizione e manifattura e approdano nel contemporaneo (o no) sono almeno due. Il primo vede protagonista Co/Rizom, associazione ungherese che nel quartier generale delle 5Vie porta il frutto dei gruppi di lavoro formati da artigiani, designer e business developer. L’altro prende corpo da Nilufar Depot, dove Valentina Ciuffi ha selezionato tre designer (Carlo Lorenzetti, Etienne Marc e lo studio Odd Matter) che fanno dell’artigianato una frontiera sperimentale: qui nessuna tecnica è scontata, anzi la regola è coltivare, ossessivamente, l’inatteso, dalla combinazione di materiali dati per incompatibili all’uso di prodotti medicali.  

Perché il rapporto tra design e artigianato è alla base della cultura del progetto, anche di quello contemporaneo. E perché se abbiamo imparato a conoscere le manifatture storiche italiane, ora tocca a quelle dei Paesi dell’Est Europa, che nascondo storie di dedizione tutte da scoprire.

Talk e conferenze non sono mai mancati alla Design Week, ma in un anno particolare come questo, che arriva dopo la lunga emergenza pandemica e con una guerra in corso alle porte dell’Europa, non può che crescere il peso specifico percepito degli appuntamenti dove protagonista è la parola. Prada Frames, il simposio alla Biblioteca Braidense dal 6 all’8 giugno, a cura di Formafantasma, promette di distillare pensieri ad alta densità con gli interventi, tra gli altri, di Paola Antonelli, Alice Rawsthorn, Teresa Castro e Anna Tsing. Proprio Tsing, autrice de Il fungo alla fine del mondo, parlerà del suo saggio fortunatissimo dedicato al matsutake, esemplare raro di fungo che è un po’ la metafora del vivere tra le rovine del nostro mondo immaginandone un altro basato su valori nuovi.

Per scoprire come il buon design può, se non cambiare il mondo, almeno migliorarlo.

Perché la prima fiera del design editoriale decide di allestire un proprio spazio nel quartiere milanese a più alta densità di show room al mondo? Semplice, per portare in trasferta la missione di costruire dodici mesi l’anno una comunità intorno al suo campo d’elezione: la creatività slow che nasce dall’incontro delle piccole e medie manifatture con i designer, per generare opere lontane dalle logiche industriali come da quelle del pezzo unico. Edit Napoli, e le sue fondatrici Emilia Petruccelli e Domitilla Dardi, portano al Padiglione Brera, nel Chiostro di San Simpliciano, una mostra pensata per dare un’ulteriore ribalta ai vincitori, lo scorso ottobre, del Premio che accompagna la fiera partenopea. Protagonisti, le collezioni in vetro soffiato di Alexander Kirkeby, i tappeti di Caterina Frongia ispirati all’artigianato sardo, le argille tatuate di ccontinua + Mamt e la collezione Tagadà di Stamuli. 

Perché se è vero che il design è network, è bello vedere due realtà lontane come Milano e Napoli, il design industriale e quello editoriale, dialogare in maniera virtuosa. 

Fatale è, al Fuorisalone, l’appuntamento con la storia. Il confronto tra il design dei nostri giorni e quello dei maestri è un rituale fuori luogo, ad altissimo rischio di populismo: sarà per questo che è impossibile sottrarsi. Quest’anno gli eventi legati al passato sono tanti e tutti di qualità. Imperdibile la mostra dedicata a Joe Colombo alla GAM, come quella su Aldo Rossi al Museo del Novecento, l’accoppiata Zanuso/Mendini all’Adi Design Museum e la retrospettiva su Memphis in Triennale curata da Christopher Radl (con una missione: “Evitare in tutti i modi di fare una mostra storicizzante o celebrativa e mostrare, piuttosto, cosa è stato Memphis, la sua libertà e la scelta di provocare e contestare in modo creativo lo status quo”, ha spiegato lo stesso Radl a Elisa Massoni su Interni). Autentiche gemme arrivano anche da aziende che hanno riaperto gli archivi per rieditare capolavori del secolo scorso. Una menzione a parte merita iGuzzini, che con l’installazione Re-Future a cura di Alessandro Scandurra riporta alla luce – è il caso di dire – quattro lampade che brillano ancora per la loro attualità: Polsino di Gio Ponti (modello portatile, che anticipa di generazioni prodotti che adesso è normale trovare in catalogo), Zurigo di Luigi Massoni, Nitia di Rodolfo Bonetto e Sorella by Harvey.

Perché il confronto con i maestri è sempre utile, se non necessario. A patto di non scadere nella nostalgia o nel giudizio vagamente populista (“non c’è più il design di una volta…”).

Polsino di Gio Ponti, iGuzzini

Zurigo di Luigi Massoni, iGuzzini

Da tempo, l’illustrazione ha scalato la montagna del design, piantando bandiere anche nel mondo dell’arredo, tra grafiche d’autore e pattern a valanga. Non a caso, questa è la design week che avrà tra i suoi protagonisti Emiliano Ponzi e Olimpia Zagnoli. Resta ancora raro un approccio perturbante, che funzioni come un invito a guardare le cose in maniera laterale, meno convenzionale. Per questo ci piace il progetto mammaroma di Gianfranco Setzu, che su un plaid in pura lana vergine del Lanificio Leo ha disegnato il volto di Anna Magnani. Non il volto rassicurante che ci aspetteremmo da un prodotto simile, ma la grande attrice nell’atto di urlare come nella famosa scena di Mamma Roma, il film di Pier Paolo Pasolini che in questi giorni compie sessant’anni. Un urlo liberatorio, che esprime un disperato desiderio di cambiamento. Originale anche la modalità di presentazione: tutta in digitale, sui canali instagram di Setzu, Lanificio Leo e del fotografo Tiziano Demuro, coautore del progetto. 

Per l’approccio tutt’altro che scontato nel restituire l’immagine di un simbolo della cultura italiana. E perché, scegliendo il digitale, gli autori del progetto piantano una bandierina al Fuorisalone senza esserci davvero.

La collaborazione tra un’eccellenza del made in Italy e la designer olandese segna l’avvio di Patronage, il progetto che fa ripescare a Cassina una parola bella e antica come patronaggio, un altro modo di dire mecenatismo: “Patronage è la pratica secolare tipica dell’Italia rinascimentale che è stata il motore dello sviluppo delle arti. Grazie al sostegno dato, gli artisti potevano esprimere al meglio la loro creatività senza limiti, contribuendo alla storia dell’arte come la conosciamo oggi”. La collezione di Freya Tangelder, colta, sofisticata e tutta da scoprire, è anche il frutto della sua esperienza a In Residence di Marco Rainò e Barbara Brondi. Ricerca sui materiali, disassemblabilità e riparabilità sono le prerogative di questi arredi inattesi con cui l’azienda di Meda torna a scommettere sui creativi più giovani.

Per apprezzare che cosa succede quando un marchio storico del design italiano ri-scopre dopo tempo la creatività dei designer più giovani, accanto a quella dei nomi internazionali più blasonati. 

Anche quest’anno, la rivista Interni dissemina installazioni per l’Università Statale e l’Orto Botanico di Brera. Il tema è quanto di più attuale possa offrire la cultura del progetto: Design Re-generation. La mostra, spiega la direttrice Gilda Bojardi, è “una grande riflessione collettiva sulla rigenerazione quale pratica progettuale: per recuperare quanto già costruito e prodotto e migliorare la qualità di vita di chi abita e utilizza i manufatti dell’uomo”. Per questo, non poteva trovare migliore location il debutto di Mathera, il materiale sperimentale, totalmente riciclabile, appena tenuto a battesimo, dopo tre anni di ricerca, da Saib e Diego Grandi. L’azienda emiliana, che a questa Design Week festeggia sessant’anni di vita, è un’eccellenza del pannello truciolare, che da tempo produce impiegando esclusivamente legno di riciclo. Grandi è un’autorità nel mondo delle superfici. L’accoppiata promette di innovare il mondo delle superfici con un prodotto che mette insieme materiali di riciclo, performance tecniche ed estetica.  

Il tuo webmagazine sul design e l'architettura. Raccontiamo storie che arrivano da sentieri poco battuti. Offriamo visioni laterali su personaggi e temi d’attualità

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